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I grandi passi della ricerca: l’HIV e l’AIDS nel 2019

L’HIV è il virus responsabile della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita, ciò che noi conosciamo come AIDS. In poche parole, parliamo di una condizione in cui una minuscola particella del diametro di circa 150 nanometri (unità di misura corrispondente ad un milionesimo di millimetro) è in grado di infettare un organismo, riprodursi al suo interno e modificarne completamente gli equilibri, creando una gravissima condizione di immunodeficienza, ossia di progressiva perdita di qualsiasi difesa.

Infatti, il principale bersaglio di questo virus sono le cellule del nostro sistema immunitario, in particolare un tipo cellulare che ha un ruolo chiave nella difesa: i linfociti T. Dal momento del contagioHIV non fa altro che ridurre progressivamente il numero di queste cellule nel corpo, fino al punto che qualsiasi microrganismo potrebbe aggredirlo e qualsiasi mutazione o danno del DNA non troverebbe niente ad arginarla nella sua evoluzione verso lo sviluppo di un tumore.

È facile prendere l’HIV? Cos’è l’AIDS? Tutte le domande sul virus

In un modo o nell’altro ne abbiamo tutti sentito parlare: chi tramite un film o una serie televisiva, chi attraverso articoli divulgativi, chi per esperienza personale. Ma quanto ognuno di noi può dire davvero di sapere su HIV e AIDS? Cos’è l’AIDS? Come nasce l’HIV? Quanta della nostra conoscenza al riguardo si basa su aspetti scientificamente confermati e quanta sullo stereotipo e sul “sentito dire”? Sono molti i quesiti che attraversano la mente di una persona estranea all’argomento: HIV e AIDS sono sinonimi? Si muore ancora di infezione da HIV? Chi ha l’HIV è davvero talmente contagioso da dover essere evitato? Ce l’hanno solo i gay, gli individui con una sessualità promiscua e i tossicodipendenti? È facile prendere l’HIV? Come riconoscere un sieropositivo? Queste persone possono avere una vita normale (praticare sport, lavorare, viaggiare, sposarsi, avere figli…)?

Secondo l’Unicef “la forza dell’HIV/AIDS risiede nell’ignoranza delle sue vittime” e “troppe persone si sentono protette dal rischio del contagio mentre in realtà non conoscono, o credono erroneamente di conoscere, cosa sia l’HIV/AIDS”. Per saperne di più, partiamo da dove tutto ha avuto inizio.

Gli anni ’80: come il mondo ha scoperto HIV e AIDS

Oggi le parole HIV e AIDS hanno un significato per tutti, ma fino a una quarantina d’anni fa nessuno le aveva mai sentite, nemmeno i medici. L’HIV compare per la prima volta nella letteratura medica (e nemmeno con questo nome) nel 1981: si era notato che a Los Angeles stavano emergendo, in diverse parti della città, alcuni casi di una particolare polmonite sostenuta da Pneumocystis Carinii, che in ambito medico è conosciuto come un fungo in grado di provocare la malattia solo nei soggetti con difese immunitarie basse. L’altro elemento che questi soggetti avevano in comune, oltre alle difese basse, era l’omosessualità.

A metà degli anni ’80 venne isolato per la prima volta in Francia il virus responsabile di questa immunodeficienza: l’HIV, che si ritiene oggi derivare dal virus dell’immunodeficienza dello scimpanzé.

I casi aumentavano di giorno in giorno e l’infezione si espandeva rapidamente. Gli infettati presentavano manifestazioni tipiche delle patologie opportunistiche, ossia sostenute da agenti infettivi che non potrebbero dare malattia nel soggetto sano e con buone difese, ma che trovano un contesto favorevole per farlo in chi ha le difese basse.

Una delle manifestazioni tipiche che aiutavano ad identificare AIDS in quegli anni erano le macchie violacee del sarcoma di Kaposi, un tumore la cui insorgenza è favorita da un virus che sarebbe stato innocuo nei cosiddetti “immunocompetenti”. A causa invece dell’immunodeficienza i malati sviluppavano manifestazioni via via più invasive e invalidanti, sia fisicamente che socialmente, e la condizione esitava invariabilmente nella morte.

Inizialmente la malattia colpiva omosessuali e tossicodipendenti. Questo non passò inosservato, tanto che divenne famosa come “piaga dei gay”. Ci si riferiva infatti all’attuale AIDS con la sigla GRID: Gay-Related Immune Disease, malattia immune associata all’omosessualità.

In quegli anni si creò un profondo stigma, che spesso emerge ancora oggi, un legame indissolubile tra l’AIDS e la colpa: quelle macchie violacee, il deperimento fisico diventavano un’etichetta. Chi aveva l’AIDS “se l’era cercato”, portando avanti uno stile di vita malsano e dissoluto. In quegli anni gli eterosessuali guardarono alla patologia con disinteresse, come qualcosa di distante, una sorta di punizione per il diverso. Anche il mondo politico tacque.

Il pastore statunitense Jerry Lamon Falwell, allora esponente dell’estrema destra cristiana, diceva che “l’AIDS non è solo la punizione di Dio per gli omosessuali, è la punizione di Dio per la società che tollera gli omosessuali”.

In breve tempo fu però chiaro che quel virus di un centinaio di nanometri non guardava all’orientamento sessuale delle persone e che poteva interessare tutti, anche gli eterosessuali e coloro che non si erano mai drogati. Cominciarono paura e ghettizzazione: il malato era un appestato. La società isolava, il sieropositivo era “l’altro”, quello che “non doveva toccarci, passarci la penna, respirarci vicino”. L’AIDS non era più la peste dei gay, ma la peste del secolo.

Quando l’infezione cominciò a diffondersi a macchia d’olio, cominciarono le ricerche sul virus e le campagne di prevenzione.

In quegli anni ciò che ha favorito molto la trasmissione del virus tra le persone, non solo negli Stati Uniti, ma in tutti i Paesi e continenti, in particolare l’Africa, sono state proprio l’ignoranza e la negazione. Infatti esisteva all’epoca, come esiste in parte ancora oggi, una corrente negazionista, sia nel mondo scientifico che al di fuori, che sosteneva un’assenza di correlazione tra infezione e immunodeficienza. In casi più estremi si è giunti persino a negare l’esistenza della malattia. Un esempio eclatante fu quello di Thabo Mbeki, presidente del Sudafrica dal 1999 al 2008: secondo Mbeki, l’AIDS era “un’invenzione dei bianchi”, un “raggiro ai danni degli africani operato dai paesi più sviluppati” che tentavano di vendere i farmaci antiretrovirali della medicina occidentale. A sensibilizzare il Sudafrica e il mondo intero sulla questione HIV/AIDS fu l’appena undicenne Nkosi Johnson. Nkosi era un bambino sieropositivo a cui la madre, già morta di AIDS, aveva trasmesso il virus al momento del parto. Tenne un discorso nel 2000 a Durban (Sudafrica) durante la tredicesima Conferenza Internazionale sull’AIDS e sconvolse l’opinione pubblica, affermando di avere ormai solo pochi mesi di vita a causa della malattia e denunciando la totale assenza di sostegno da parte del governo sudafricano nella lotta contro l’infezione. Le sue parole sortirono il loro effetto, considerando che ad oggi il Sudafrica è il paese con più pazienti in cura del mondo intero, circa 7 milioni.

HIV e AIDS oggi: sensibilizzazione e progressi della ricerca

Qual è la situazione oggi? Dopo la fortissima campagna di sensibilizzazione che è stata fatta nei decenni passati, pare che attualmente la prevenzione della trasmissione sia dell’HIV che delle Malattie Sessualmente Trasmissibili nel loro complesso sia stata trascurata. Una conferma di ciò è il fatto che in Europa, solo pochi anni fa (2014), è stato rilevato il più alto numero di HIV-positivi della storia della malattia. Pare che le persone, non sentendo più parlare della famosa “peste del secolo”, si siano convinte che l’infezione sia stata in gran parte debellata e che sia difficile contrarla.

Un altro importante cambiamento è che negli ultimi anni il mito dell’HIV che va a braccetto con l’omosessualità e la tossicodipendenza è stato sfatato: ad oggi i sieropositivi sono soprattutto eterosessuali.

Il mondo della Medicina conosce moltissime cose in più sull’HIV, rispetto agli anni ’80. Innanzitutto è divenuto chiaro che la più frequente modalità di trasmissione secondo una prospettiva mondiale è quella per via sessuale. L’HIV è presente nelle secrezioni vaginali e nel liquido spermatico e precoitale, ma non è assolutamente presente nella saliva, tanto che non si può trasmettere con il bacio.

Esiste anche una modalità di trasmissione verticale – da madre a figlio durante il parto, come è avvenuto a Nkosi Johnson, o con l’allattamento – e una parenterale, ad esempio tramite la condivisione di aghi, pratica diffusa in chi fa uso di eroina, o con le trasfusioni. Quest’ultima possibilità di contagio è il motivo per cui, soprattutto nei paesi con più alto livello socio-economico, le sacche di sangue ottenute da donatori sono estremamente controllate.

Quanto dura l’incubazione del virus HIV e quali sono i sintomi iniziali? Dopo un periodo di circa 1-2 settimane dall’eventuale contagio HIV, la maggior parte dei pazienti lamenta un malessere passeggero che molti scambiano per mononucleosi o influenza. Dopo questa fase si entra in una sorta di limbo che sta tra il contagio e la conclamazione della malattia, chiamato “latenza clinica”, durante il quale l’infezione è silente, non ci sono sintomi. Questa sembra essere la fase più pericolosa rispetto alla trasmissione: il soggetto infetto e inconsapevole di esserlo è contagioso e incapace di prendere precauzioni al riguardo. Molti virologi e infettivologi paragonano questa fase ad un treno che viaggia su delle rotaie in direzione del baratro: la velocità del treno è data dalla replicazione virale e il percorso sulle rotaie che divide il treno dal baratro sono il numero di linfociti T che ancora difendono l’organismo. Ma dove conduce questo baratro? Alla fase successiva, quella del già citato AIDS.

L’AIDS e la forte immunodepressione che esso determina sono i veri responsabili dei decessi correlati all’infezione da HIV e sono il risvolto che si associa a quest’infezione quando non viene diagnosticata e trattata, ma abbandonata a quella che è la sua evoluzione naturale. Ne deriva che l’HIV è responsabile dell’AIDS, ma non tutti quelli che hanno l’HIV hanno l‘AIDS.

HIV e AIDS: l’importanza della prevenzione

Quali sono le cure per l’AIDS? Il treno che corre verso il baratro può essere fermato?  Con i trattamenti oggi a disposizione, assolutamente sì. È necessario partire dal presupposto che l’infezione da HIV non si considera attualmente eradicabile: in altre parole, guarire completamente allontanando il virus dall’organismo è ad oggi considerato impossibile. Il vero progresso è però legato al fatto che, tanto prima si comincia il trattamento dell’infezione, tanto più è probabile che il soggetto abbia una sopravvivenza e una qualità della vita paragonabili a tutti gli altri, infatti, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Lancet nel 2016, un 20enne che scopre di aver contratto l’HIV e comincia subito a curarsi, ha un’aspettativa di vita di 78 anni, molto vicina a quella di chi non è infetto.

Ad oggi, chi riceve la diagnosi e aderisce perfettamente alla terapia, assumendo con assoluta regolarità e continuità i farmaci, in modo da non lasciare il tempo al virus di replicarsi e uccidere i linfociti, può aspirare alla “carica virale indosabile”, ossia ad una condizione in cui non è più possibile riscontrare il virus nell’organismo. L’infezione è sempre presente, ma è quiescente grazie alla terapia farmacologica. Questo significa che c’è un’assenza di virus nel sangue e in qualsiasi secrezione e quindi il soggetto aderente alla terapia non è più in alcun modo contagioso e ha un tipo d’infezione a cui sarà impedito di progredire verso l’AIDS.

Tornando alla metafora del treno in corsa verso il baratro, la risposta è sì: il treno può essere fermato, chi ha l’HIV oggi può condurre una vita normale, fare sport, lavorare, viaggiare, sposarsi e, con gli opportuni accorgimenti, portare avanti gravidanze e crescere figli sani.

Come capire se si ha l’HIV? I problemi che oggi ci troviamo ad affrontare in relazione all’infezione sono legati al fatto che si giunge alla diagnosi ancora troppo tardi: ci si accorge di essere infetti solo quando ormai si è sviluppato l’AIDS e si va dal medico con le prime manifestazioni di quest’immunodepressione. Questo non solo impedisce al singolo di avere un’efficacia terapeutica paragonabile a quella di chi inizia il trattamento prima, ma durante il periodo tra l’inconsapevole contagio dell’HIV e lo sviluppo dell’AIDS, l’infezione può essere stata diffusa con una ripetizione del meccanismo di contagio che aumenta in maniera esponenziale il numero di persone coinvolte.

Oggi ciò a cui si mira è quindi potenziare l’aspetto della prevenzione, in particolare sollecitando l’uso del preservativo e il cosiddetto “sesso sicuro”, e favorendo la diffusione dello screening per HIV, tra le persone sessualmente attive che hanno adottato comportamenti a rischio. In questo modo l’infezione viene diagnosticata prima, rappresentando un vantaggio enorme per il singolo e per la società. 
Sugli HIV-positivi e sui malati di AIDS sono da sempre state riversate la paura e l’ipocrisia della società. Nel film “Philadelphia” l’avvocato Joe Miller, interpretato da Denzel Washington, dice una frase che esprime perfettamente la loro condizione: “Questa è l’essenza della discriminazione: il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali, ma piuttosto sulla loro appartenenza ad un gruppo con presunte caratteristiche”. Tutto questo oggi può cambiare, sia perché il progresso scientifico consente a chi ha l’HIV di vivere una vita più normale possibile, sia perché la storia di questa malattia può e deve far imparare dagli errori commessi nei confronti di una categoria di persone che si è trovata prima trascurata dall’opinione pubblica, poi completamente isolata socialmente. Il giovanissimo Nkosi Johnson, pochi mesi prima della sua morte a soli 12 anni, ha lanciato un ultimo, forte appello, che quel giorno di luglio è riecheggiato per gli schermi di tutto il mondo: “Accettateci: siamo tutti esseri umani. Siamo normali. Abbiamo le mani. Abbiamo i piedi. Possiamo camminare, parlare. Non abbiate paura di noi: siamo tutti uguali”.

Nkosi Johnson e Isa Bridarolli

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